
Ci è sembrato di vivere un’occasione speciale da Tabarè, la galleria di cinque tenaci ‘ragazze’ che hanno ospitato ‘Ritratti della casa’, la mia ultima mostra. Per loro avevo immaginato di ricreare qualcosa di simile ad una residenza d’artista, dove, in un loop di performance dal vivo protratte nel tempo, avrei realizzato e raccolto solo opere specifiche per quello spazio.
Cercavo l’opportunità per poter vivere un’esperienza diretta con il pubblico e volevo uno scambio, così decisi che in estemporanea, esclusivamente dentro lo spazio della galleria, avrei fatto il ritratto di cento persone.
Proponendo questo intervento, avevo scelto di espormi in maniera assoluta, azzardatamente, perchè speravo di provocare nei cento partecipanti altrettante reazioni. Avrei offerto loro una bella poltrona per accomodarsi di fronte a me,
dei libri d’arte sparpagliati e qualche fumetto da sfogliare.
Tutto era pronto per il nostro incontro, per ricreare l‘ambiente intimo ed accogliente che li avrebbe fatti sentire a proprio agio. Così è iniziato ‘Ritratti della casa”.
A dir la verità, nei miei dieci anni come pittrice attiva a Milano era già capitato di fare qualcosa del genere, naturalmente con gli Ultrapop, il gruppo di artisti con cui ho avuto la grande fortuna di unirmi: Antonio Sorrentino, Giordano
Curreri e Dario Arcidiacono, dei maestri per me, con loro ho vissuto importanti anni di formazione.
In quel caso la performance si era svolta in un tempo ristretto, mentre adesso avrei riprodotto in maniera somigliante, con delle semplici
tempere su carta di piccolo formato, cento espressioni umane. Per raccoglierle ho avutobisogno di nove lunghi mesi.
Come vi vedo, cosa di voi riesco realmente a cogliere e quanto vi lasciate davvero osservare da me, dagli altri? Questo mi interessava. Noi e il nostro ego, l’ immagine di noi che cerchiamo di spingere per ottenere qualcosa in cambio, cosa vogliamo mostrare di noi, cosa siamo veramente?
Avevo finito di leggere da poco ‘Narcisismo.
L’identità rinnegata’, di Alexander Lowen, un testo che parla della complessità dell’anima e dell’incapacità di amare. Mi aveva molto colpito.
Perchè si arriva a tanto male da rifiutare le emozioni? Perchè, sempre più spesso la nostra società è formata da individui che scelgono di aprirsi solo a fini consumistici e che tendono a spettacolarizzare i sentimenti con ipocrisia? Per paura immagino. E allora, perchè non tenerci per mano?
Accogliere le persone in quanto parti attive, coinvolgerle e conoscerle confrontandosi, mi sembrava un buon inizio per provocare una partecipazione di sentimenti che andasse oltre la superficie delle cose. Volevo instaurare un dialogo gentile, dove nessuno dice all’altro cosa è giusto o cosa è bello.
Nessun ‘professore’ ma tante persone, così che di questo lavoro sarebbe rimasta una traccia umana, piena di debolezze ma appunto per questo forte.
Lavori imperfetti, fatti di getto, comunque validi per riconoscere in tutto questo qualcosa di realmente accaduto, qualcosa di vero!
Mentre disegnavo quasi tutti si raccontavano, come ipnotizzati da una condizione di morbidezza, quella di quando ci si conosce poco ma ci si sente di potersi aprire, come se quell’incontro prescindesse un accordo dove qualsiasi confessione si sarebbe cristallizzata, incastonata nella fortunata occasione di quel momento. Fortunata, per entrambi direi.
Per me perchè mi si concedevano, per loroperchè una volta conclusa la mostra avrebbero ricevuto un dono particolare, perchè avevo deciso di regalare i ritratti a tutte le persone che insieme con me si mettevano in gioco.
Ogni seduta ha avuto il suo corso. C’è stato chi si è semplicemente rilassato, chi si è quasi confessato, alcuni annoiati, qualcuno imbarazzato.
C’era chi non riusciva a stare fermo e chi doveva scappare per spostare la macchina. Chi era terrorizzato dall’idea di venire male e chi sembrava se la spassasse proprio. Chi si riconosceva in quell’immagine e chi invece no.
Qualcuno si è commosso.
In fondo, ‘Ritratti della casa’ mi ha solo ricordato qualcosa che sapevo già. Noi esseri umani, di una cosa sola abbiamo bisogno: di contatto, di fiducia nel prossimo e di coraggio nell’affrontarlo, di qualcuno che crede in noi, che ci sappia ascoltare e che ci vede per come siamo o forse solo per come vogliamo sembrare, ma che almeno sa che esistiamo.
C‘è un artista, che strumenti mi dà per interpretarlo, cosa dice e perchè?
Questo bisognerebbe chiedersi ed a questo penso valga la pena rispondere con franchezza.
Rifiutando inutili confezioni, incontrandoci, prendendo il tempo per farlo, esprimendo le nostre perplessità liberamente e con curiosità, accettando che a volte ciò che importa non è tanto il risultato di ciò che si fa ma il processo per
arrivarci.
La parte viva insomma, quella morta lasciamola ai social.